domenica 18 dicembre 2016

Il cambiamento passa attraverso il nostro essere

Ultimamente, navigando sui social, ma anche nella vita non virtuale, noto sempre più frequentemente non solo un'aggressività verbale, ma anche un giudizio lapidario su persone, situazioni, schieramenti, opinioni. Denoto sempre più spesso che si antepone e si pone in primo piano solamente una propria idea, una propria posizione appesa al proprio diario virtuale o sulla propria bacheca sociale senza cercare in maniera consapevole un confronto. Si sputano sentenze come volendosi liberare di una gomma che si è masticata da tempo senza domandarsi come e dove la si butta.
 Il confrontarsi prevede almeno un io e un tu conosciuto e riconosciuto come proprio interlocutore. Oggi, invece, si privilegia lanciare la propria invettiva in una agorà generica, eterogenia, disinteressata molto probabilmente di quello che si posta, si twitta, e si segue, il più delle volte, per prendere le misure con il pensiero, le opinioni di una persona pubblica o che appartiene alla cerchia di conoscenze. I social credo che in questo hanno perso una grossa opportunità. Oppure siamo noi fruitori ad aver mancato la possibilità di utilizzare questi strumenti per la costruzione di una piazza pensante.
Sono convinta sempre di più, dopo varie esperienze di vita e come ha detto Roberto Saviano in un'intervista, che il vero cambiamento non sta in bocca di quelli che muovono la lingua e hanno le mani in tasca. Sono convinta che il cambiamento non viene solo con le grandi iniziative sociali, di solidarietà. Certo portano frutti, creano infrastrutture e migliorano le condizioni di vita.
Sono convinta che il vero cambiamento passa (cioè va un punto a un altro attraversando uno spazio) con le azioni, l'impegno e l'attenzione che ciascuno di noi investe nel proprio quotidiano. Per passare da un punto ad un altro è importante l'essere (detta alla Etty Hillesum) di noi stessi nella società. In poche parole come noi abitiamo lo spazio che ci è stato affidato. Di solito chi abita in maniera feconda questo spazio non fa rumore.
Per esempio non aspetta che l'Europa prenda posizione sulla questione dei migranti, ma dà la propria disponibilità per accoglierli in modo dignitoso, nonostante la situazione di emergenza e la burocrazia che rema contro.
Per esempio mette a disposizione le proprie ferie per donarle a una donna che neanche conosce in modo tale che quest'ultima possa accudire il proprio figlio gravemente malato.
Per esempio una coppia che decide di devolvere i soldi raccolti durante il matrimonio in un progetto solidale dall'altra parte del mondo.
Dietro ad ogni "per esempio" ci sono volti, mani, sorrisi, lacrime e non ci sono lingue e bocche. Questo "per esempio", queste storie vanno raccontate: dobbiamo sempre più farci testimoni del bene, la nostra bocca deve essere un portavoce di bene, il nostro essere deve essere per il bene. E poi cos'è questo bene? E' quel sentimento che inclina l'uomo ad amare e rispettare, cioè è la pietas, che non è la pietà come la intendiamo comunemente.

domenica 11 dicembre 2016

Avvicinandosi al Natale

Terminal di Parigi: sto aspettando il volo per Torino dopo un weekend passato a
Norimberga. La Germania in questi giorni mi ha fatto respirare un clima natalizio che nelle nostre città manca da tempo. Noi più che addobbare la città, addobbiamo le vetrine dei negozi. Più che coinvolgere le persone in un clima di gioia, sembra che l'unica gioia sia la ricchezza del consumismo.
È bello riscoprire, soprattutto in questo periodo, che siamo fatti di relazioni, siamo rigenerati dai valori, etici prima che religiosi, che affondano e si rafforzano con la condivisione tra amici, familiari, ma anche che legano un popolo, una nazione.
L'esperienza del Natale diventa il lascia passare per riscoprire quei sapori che la quotidianità anestetizza, offusca inebriati dalla mancanza di tempo.
Ci permette di guardare dentro noi stessi, di ascoltare il silenzio del nostro essere, anche quando siamo in mezzo al delirio assoluto. Questo permette innanzitutto di avere un occhio in più di riguardo per noi e, inoltre, ci consente di mettere e indossare gli accessori o le periferiche adeguate per sentire meglio l'altro che si fa prossimo.

martedì 29 novembre 2016

Racconti di viaggio – Swaziland 2016

I compagni di viaggio
Ritornata a casa è difficile raccontare quello che si è vissuto. In questo momento risulta molto facile fare una rassegna dei luoghi che abbiamo visitato, una descrizione delle Missioni, degli asili e degli ospedali che abbiamo visto. La mente in questo momento è vuota: è il cuore ad essere pieno. Pieno di volti, occhi, sorrisi, lacrime, risate, abbracci, gesti che ci hanno accompagnati come gruppo in questo viaggio. Sì, perché in un viaggio come questo sono le persone che fanno la differenza, i compagni di viaggio: Laura, Tarcisio, Maddalena, Ilaria, Giulia e Giorgia, una perfetta amalgama di carismi (cosa non scontata visto che prima di questo viaggio non ci conoscevamo) e la gente del posto che ci ha accolto e, nel vero senso della parola, ci ha fatto sentire a casa.


Vivere la condivisione
Voglio soffermarmi sulle persone che abbiamo incontrato in questi giorni passati in Sudafrica che ci hanno permesso di vedere i problemi, ma anche vivere la gioia, da angolazioni diverse.



Padre Giorgio: esperienza ed entusiasmo
Padre Giorgio è stato il nostro faro nei giorni trascorsi nella missione di Hluti nello Swaziland. Grazie alla sua esperienza e al suo grande entusiasmo abbiamo avuto la possibilità di visitare le famiglie della missione, scoprire e meravigliarci dell’accoglienza ricevuta, semplice e sentita in un contesto di una povertà piena però di dignità. Di solito ci facevano entrare in una stanza o mettevano all’aperto nelle stuoie nella quale ci sedevamo tutti insieme. Ci raccontavano del loro quotidiano, ci presentavano i bambini, cantavano e pregavano con noi. I bambini parlavano con gli occhi e con il loro sorriso presente o assente sul loro volto.


Fufu e il linguaggio del gioco

Ci hanno avvolto in un abbraccio spontaneo, in un entusiasmo aiutato anche dal linguaggio del gioco che unisce. Ricordiamo tra questi bambini la storia di “Fufu” un bambino nato sieronegativo nonostante che i genitori siano sieropositivi. Si era creato un clima di amicizia tanto che tutti ci siamo emozionati quando abbiamo lasciato la missione. Quando è il cuore a parlare anche le barriere linguistiche e culturali cadono perché le emozioni sono uguali in qualsiasi latitudine del globo.


Suor Camilla: la clinica e l’aids
Suor Camilla, invece, ha investito la sua vita come infermiera nella clinica della missione di Hluti, aiutando soprattutto i malati di AIDS, grande piaga di questo Paese, oltre all’assenza dell’acqua. Non ha solo fatto punture, dato medicinali, ma si è presa cura delle ferite sociali che una malattia come l’AIDS comporta.


Suor Ada: la gestione dell’acqua

Suor Ada ha in mano la gestione di un bene prezioso: l’acqua sempre nella missione di Hluti. Almeno due volte al giorno si reca alla piccola diga, alimentata da un fiume quest’anno in secca, per controllare che le turbine che portano l’acqua alla missione, attraverso un sistema di tubazione, funzionino bene, non si surriscaldino. L’acqua, prima di arrivare nelle case della missione, passa attraverso un sistema di purificazione, mentre quella che serve per l’agricoltura non viene trattata.


Il progetto: i serbatoi
Sempre parlando d’acqua è stata un’esperienza unica poter vedere i serbatoi, finanziati dal progetto, già collocati in alcune abitazioni. Sono dislocati in una zona piuttosto isolata, povera e arida. Purtroppo i serbatoi sono vuoti perché l’acqua piovano quest’anno stenta ad arrivare. Sono previste delle piogge nel mese di dicembre. Il responsabile della diocesi ci ha accompagnati nelle famiglie a cui è stata installato. E’ stato bello, nonostante le condizione difficili della popolazione, capire la potenza e l’aiuto che un progetto come questo può dare alle persone. Per noi basta aprire un rubinetto e l’acqua scorre, non dobbiamo preoccuparci di preservarla. Lì, invece, ogni goccia è preziosa, da utilizzare con parsimonia. Ci hanno colpito i bambini di diverse età che vanno a prendere l’acqua in un rigagnolo. Anche piccoli di 2, 3 anni con due bottiglie in mano si fanno anche 10 km prima di arrivare a una fonte.

Il vescovo: pellegrinaggio
Un altro volto che ci ha colpiti è stato quello del Vescovo che ha voluto incontrarci alle 3:30 di notte durante un pellegrinaggio in onore di Maria Assunta in cielo. Abbiamo partecipato ad una veglia notturna che non ha niente a che vedere con le nostre: il popolo africano loda il Signore con tutto il corpo. Con la voce: hanno una capacità polifonica naturale; riescono a cappella ad intonare canti a 3, 4, 5 voci come niente. Pregano anche con la danza: movimenti semplici, ma che fatti da 4000 persone contemporaneamente (questo era il numero dei partecipanti alla veglia, tenendo conto che solo il 5% della popolazione è cattolica). Ti coinvolgono in una lode gioiosa proprio in questi luoghi dove tocchi con mano la sofferenza. Noi su questo abbiamo molto da imparare.


Il direttore di St. Anthony’s home

Altri occhi che parlano da soli sono quelli del direttore dell’orfanotrofio vicino a Newcastle. Un omone grande e grosso ma con un cuore di cristallo, prezioso e delicato. Bastava vedere come guardava i bambini che vivono nella struttura per capire che quella era la sua famiglia e che per quella famiglia lui cerca di fare e di volere il meglio. Ci ha domandato: “Avete fatto quello che cercavate?”. Decisamente sì: passare un po’ di ore con i piccoli della casa, mettere loro il pigiama e vedere come i bimbi più grandi si prendono cura dei più piccoli, per esempio nell’ora di cena, oppure vedere ballare gli adolescenti la sera in una piccola festa improvvisata, non poteva che riempire il nostro cuore di gioia.


Le conclusioni
Giunti a casa, ritornati alle nostre abitudini è difficile che tutto torni alla stessa quotidianità. Cambiano le piccole cose: cerchi di non sprecare, in primis, l’acqua, visto che anche in città, come per esempio Manzini, viene razionalizzata e la chiudono tre volte a settimana per ottimizzarla. Manca quel silenzio del tramonto che svuota la mente e apre e riempie il cuore. Mancano quelle mani color cioccolato che s’intrecciano con le nostre color latte. Mancano gli occhi delle persone e i sorrisi dei bambini. Manca una semplicità estrema, ma sentita nel dimostrare e ricevere affetto che non è sovrastrutturata come i nostri comportamenti abituali nelle relazioni.

Personalmente sono partita con l’idea di dover dare, in realtà è più quello che ho ricevuto e quello che ho imparato essendo semplicemente me stessa. Un bagaglio di umanità che in questo momento cerco di portare avanti nel mio quotidiano, negli ambienti che frequento, al lavoro, in famiglia.
Il mal d’Africa, non credevo, ma esiste.
“Mi piacciono gli amici dalle menti indipendenti che ti consentono di vedere i problemi da angolazioni diverse”
Nelson Mandela

giovedì 5 maggio 2016

Quando è l'UMANO a fare la differenza

Buongiorno,
sono un/a cittadino/a del Comune di (Omissis). Oggi mi sono recato/a alla ASL (Omissis) per ricevere il PIN per l'attivazione delle credenziali al sistema (Omissis). L'unico modo per attivarlo e recarsi di persona a uno degli sportelli presenti sul territorio.
Alle 8:44 prendo il biglietto numero 118, con 98 persone in coda. Fortunatamente l'attesa (3 ore) è stata piacevole. Ho incontrato una signora di 80 anni che ne dimostrava non più di 70 e con una mente da quarantenne. Di origini siciliana, ha girato tutto il mondo per passione, legge libri, fa la settimana enimmistica e va in palestra. Che bella mente aperta e ruspante!
Arriva il mio turno. L'operatore (Omissis) è gentilissimo/a. Tenta di avviare la procedura, ma il sistema è in palla. Vedo dall'espressione del suo volto che è dispiaciuto/a. Prende tutta la documentazione e mi dice che riproverà nel pomeriggio (fuori orario lavorativo) perché ora non funziona il terminale. Mi chiede il numero telefonico: mi contatterà quando riuscirà a imputare i miei dati e timidamente mi chiede se nel pomeriggio posso ritornare per ritirare la documentazione. Gli/Le chiedo se fosse possibile inviarmi il tutto via mail. Lui/Lei tentenna e poi mi dice "farò il possibile per inviare il tutto via mail". Vado a casa, saluto la signora "open mind" ed esco dall'ASL alle 12:15 circa. Alle 15:15 ricevo una chiamata. Era il/la signor/a dello sportello dell'ASL. Voleva accertarsi se avessi ricevuto le mail per l'attivazione del servizio. Controllo ed effettivamente avevo ricevuto tutto via posta elettronica. Ringrazio il/la signore/la sia telefonicamente, sia via mail, perché ha utilizzato la posta personale adibita a lui/lei dall'Ente.
Condivido tutto con un'amica che mi scrive la sintesi di questa storia:  ... Quando è l'UMANO a fare la differenza.